Trulli-2

di Francesco Saba Sardi

Curioso destino, quello della Puglia in generale e delle Murge in particolare. I secoli d’oro dei viaggiatori stranieri in Italia, il Settecento e l’Ottocento, videro pittori, poeti, cronisti e giramondo puntare alla Campania e alla Sicilia, alle isole, al basso Tirreno e alla costa ionica, ritenuti i luoghi del sole e delle rovine, dei briganti e delle taverne, della povertà pittorica e delle danze popolari e sfrenate: ignorando però gli antichi domini dei Normanni, girando al largo da castelli svevi e cattedrali, grotte di sogno e residui del Neolitico, ciechi perfino alla presenza dei trulli. Accadde così che il mito dell’Italia, nocciolo di tutto ciò che oggi ancora attira da noi i turisti, non riguardasse la Puglia e le Murge, per loro sfortuna o forse fortuna).

Un viaggiatore in cerca di impressioni qui scoprirà come la regione sia un tutto unitario, la meno meridionale e la meno prorompente delle terre del Sud: la Puglia piana, la magna Catapana” che re Enzo, prigioniero a Bologna, pateticamente rimpiangeva. Ma subito dopo scoprirà una stratificazione, una varietà, un’imprevedibilità, esemplificata dalla facilità, oserei dire anzi disinvoltura, con cui l’antico, a volte l’antichissimo, qui convive accanto all’utilitario, al pragmatico, al concorrenziale, grazie a un comune denominatore di asciuttezza, simmetria, chiarezza addirittura cartesiane. E se è vero che ogni regione ha un luogo, un angolo che la riassume, la Puglia questa sua sintesi la trova nelle Murge dei trulli, quel lembo di terra tra Martina Franca, Alberobello, Locorotondo e Selva di Fasano, in cui si direbbero concentrati interi l’enigma e il fascino della civiltà italica.

Le vecchie guide turistiche suggerivano di arrivarci per ferrovia, lungo la linea Casamassima-Putignano. Anche chi, oggi, preferisca l’automobile, converrà vi venga dal mare, da Bari o Monopoli, addentrandosi lentamente, quasi una iniziazione, nel regno dei trulli o “caselle” come anche si chiamano questi anelli concentrici di “chiancarelle” ovvero schegge di calcare. Perché di un regno a sé, di un’isola senza tempo parrebbe effettivamente trattarsi. E’ un altopiano ondulato, di terra rossa, fitto di basse vigne, inverdito di boschi di lecci e macchie di carrubi, rigato da interminabili muretti a secco. Sarebbe il Carso, per l’aspra costituzione geologica, non fosse per la dolcezza dei profili, sì che questa terra assume una morbidezza da campagna inglese, ravvivata dallo splendore del cielo mediterraneo. Il frazionamento della proprietà terriera ha disseminato i trulli ovunque: sorgono, a gruppi o isolati, in tutta la favolosa valle di ltria, tra Locorotondo e Martina Franca; s’aggregano attorno a masserie dalle alte muraglie che si direbbero scozzesi; si allineano lungo le vie in curva alla periferia di Alberobello. E le vicende storiche, le guerre, le ristrutturazioni economiche e politiche, l’influenza levantina e il Regno di Napoli, l’inserimento nel Regno d’Italia, l’emigrazione, il neocapitalismo, non sembra siano stati abbastanza forti da alterare l’autentica, intatta arcaicità di questo mondo fiabesco.
I trulli derivano, pare, dal tholos greco; e vi diranno che c’è un sostrato magico-esoterico, che queste singolari costruzioni sono, oltre che abitazioni, monumenti; miti in pietra, emblemi com’è comprovato dalla simbologia grafica, rozza ma efficace, che spicca dipinta sulle spirali di pietre di cui consistono: gli abitanti vi faranno vedere, compiacenti e compiaciuti, la nitidezza e pulizia degli ambienti interni, l’etnologo vi spiegherà che le costruzioni in sé non sono molto antiche, ma che remota è la tradizione che le ha generate. Forse, un tempo, il trullo unicellulare non serviva da abitazione: era, sparso nei campi, un’edicola e insieme un deposito di attrezzi agricoli.

Ma la ricca Puglia, depredata da voraci padroni, s’è impoverita nei secoli, e l’agricoltore venne a vivere in questi “tempietti”, moltiplicandoli in corrispondenza alla crescente complessità del nucleo familiare, sicché oggi sovente i trulli appaiono quali i fitti acini di un patriarcale grappolo. Ma, soprattutto, essi sono una lezione: venire qui è abbeverarsi al vivo insegnamento delle tradizioni, è riscoprire quella serenità di rapporti tra uomo e mondo che i miti attribuiscono all’Età dell’Oro. Non che il contadino che vi abita sia meno alienato e povero dello zappaterra di Manduria o della vicina Basilicata, anch’egli infaticabilmente alle prese con una terra ingrata, tutta da “spietrare” materialmente e sociologicamente. Ma, per chi viene da altrove, dalle città brulicanti quest’è un’esperienza imprevedibile, unica, indimenticabile, cui il paesaggio singolarissimo conferisce ulteriore incisività. E un suolo scavato da gravine e grotte (quelle di Castellana costituiscono il complesso geologico più grandioso e spettacolare d’Italia); la campagna, verde e rossa, è una sequenza matematica di perfette arature, vigneti, oliveti, boschetti; e Locorotondo è un compatto giro di case, un candido dedalo; Martina Franca un latteo groviglio su cui spicca la barocca grafia di volute grigie, ferri battuti, velature rosa; Ostuni, ai margini della zona, è uno stiparsi di bianche case entro gli annosi bastioni circolari.

Sono le città d’un tempo che fu, in cui si dominava la materia espressiva, non il proliferante disordine dell’agglomerato odierno. Per questo le Murge possono dirsi anche fortunate. Escluse dai benefici della vita d’oggi, ne ignorano però anche i molti svantaggi, le tante umiliazioni. Ansiose di dimenticare il secolare gravame della povertà e della retorica che liricizza il sole implacabile, il gregge nero, la cisterna asciutta, riescono tuttavia, isola felice, a non divorare se stesse. Neppure la civiltà dei consumi è riuscita ad adulterare il “bianco secco” che altrove diviene sceltissimo spumante, né la schiettezza del cibo genuino, né soprattutto la benevola cordialità e disponibilità della gente che abita le Murge.