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L’oste che non c’è

 

 

 

 

“L’OSTERIA SENZ’OSTE” A VALDOBBIADENE : UN’OASI INCANTEVOLE DI PACE, BELLEZZA E CIVILTA’

 

Dove si trova Osteria senz'Oste.

Il cascinale é situato tra le vigne e per questo motivo, la possibilità di parcheggiare é limitata ed é necessario trovare spazio tra i filari che ci sono 80/100 metri prima di arrivare sul posto, dove c'é uno spazio indicato. Non può essere usato il piazzale della cantina adiacente che serve alla stessa come area di manovra automezzi da lavoro. Osteria senz'Oste si trova lungo la direttrice che dalla piazza Valdobbiadene va verso Santo Stefano, passato il paese di San Pietro.

L’osteria senz’oste esiste. Non è una leggenda metropolitana come alcuni credono.

L’osteria senz’oste è un luogo ”magico”, aperto 24 ore su 24, che si trova immerso nelle splendide colline del comune di Valdobbiadene (TV); un luogo da “vivere” con intensità, dove poter ammirare un paesaggio incantevole in tutte le stagioni e in tutte le ore e dove mangiare cibi semplici, ma di ottima qualità.

L’oste, come suggerisce il nome del posto, non c’è; ogni persona che arriva in questa osteria si serve da sola scegliendo tra scaffali, mensole e frigoriferi quello che preferisce.

Si paga poi alla fine, seguendo un listino prezzi e mettendo il denaro in un contenitore/musigna che funge da cassa.

Non è facile arrivare qui visto che non ci sono indicazioni di nessun tipo, il proprietario vorrebbe che questo luogo rimanesse “esclusivo” e fosse conosciuto solo tramite il “passa parola“ tra persone amiche che conoscono bene il senso dell’onestà e del rispetto.

Io ci sono stata la prima volta la scorsa estate e da allora questo posto è diventato “un rifugio” dove respirare il silenzio, il profumo della natura, il senso del bello e l’armonia della nostra terra.

L’interno della vecchia casa rurale è accogliente (spesso d’inverno c’è anche il caminetto acceso) e la piccola terrazza panoramica sembra un trampolino di lancio verso l’infinito.

Qui, anche se non si è soli il “clima” è sempre magicamente inconsueto, la non presenza dell’oste fa sentire tutti “custodi” di un luogo tanto prezioso quando delicato. I confini tra i tavoli spariscono, lo scambio di opinioni ed emozioni è sorprendentemente facilitato e le amicizie nascono con spontaneità. Ci si sente tutti più liberi e sereni in un luogo dove il proprietario (che a volte gira in borghese tra le persone) ha deciso di fidarsi, cosa rara al giorno d’oggi, del genere umano. Chissà forse anche il signor Cesare (questo il nome del proprietario) la pensa un po’ come Ghandi che affermava:

“Non bisogna perdere la fiducia nell’umanità. L’umanità è come l’oceano. Se poche gocce dell’oceano sono sporche, non per questo l’oceano diventa sporco.”

…o forse ha solo trovato un modo originale per guadagnare senza investire troppo e mettendo alla prova l’onestà delle persone attraverso il senso di responsabilità, esclusività e segretezza.

Lasciamo ad ognuno di voi le considerazioni in merito e vi auguro di “scoprire” prima o poi quest’osteria.

Buon viaggio tra le nostre bellissime colline e buona “caccia al tesoro”.

 

 

"Ho inventato l’Osteria senza oste per mettere alla prova gli onesti"

«Di qua, di là del Piave ci sta un’osteria. Là c’è da bere e da mangiare e un buon letto da riposar», cantavano gli alpini durante la Grande guerra. C’è ancora. C’è anche da bere e da mangiare. Manca solo il letto. Soprattutto manca l’oste. Non è morto, non l’ha ammazzato nessuno. Semplicemente non c’è mai stato. Infatti si chiama proprio così: Osteria senza oste. Un monumento all’illimitata fiducia nella lealtà umana. Entri, ti servi e te ne vai, non prima d’aver depositato i soldi del conto (che devi farti da solo) in una cassettina di legno a forma di casa, munita di un piccolo lucchetto, sul cui tetto il falegname ha inciso questa sentenza: «L’onestà lascia il segno».
È un’osteria unica al mondo. E da tutto il mondo, non solo dall’Europa, vengono per vederla, come attestano i dieci libri allineati nella madia, zeppi di dediche entusiastiche di gente arrivata col passaparola dagli Stati Uniti, dal Canada, dal Giappone, persino dalla Namibia e dal Porto Rico. Si trova appena oltre la linea del Piave, sulla sommità del colle di Cartizze che 90 anni fa pullulava di cannoni austriaci: dove c’erano le trincee, oggi crescono le vigne. Ma rintracciarla non è facile, bisogna cercare con pazienza. Avete presente una caccia al tesoro? Ecco. Da Valdobbiadene, provincia di Treviso, si va verso Santo Stefano. A un certo punto, sulla destra, un’edicola votiva e la freccia della cantina Col Vetoraz. Si prende la strada sterrata. S’infila l’auto tra i filari di viti. Poi, a piedi, su per una brevissima capezzagna preceduta da una freccia segnaletica con un punto interrogativo, «perché arrivano qui dopo aver girato a vuoto due-tre ore domandandosi indove casso che l’è», ride il padrone di casa. Il cartello dice: «Proprietà privata. Libero accesso consentito agli amici e alle persone munite di buon senso, rispetto e responsabilità». Firmato: «L’oste che non c’è».
A dir la verità l’innominato che ogni giorno porta fin quassù le vettovaglie, di nomi ne avrebbe fin troppi: Aribert Norbert Bernhard Ellemann. È un ex domatore tedesco di 69 anni che ha lavorato per il Circo Americano, per quello di Berlino e per Moira Orfei. Fu l’ultimo a lasciare Bagdad con tigri e leoni dopo la caduta di Saddam Hussein. Ma lui è solo l’uomo di fatica dell’oste che non c’è, un fantasma che d’inverno accende il fuoco nel camino, che deposita ogni giorno la soppressa col cuore di lardo, i formaggi delle malghe Barbarìa e Cesèn e della latteria Perenzin fatto senza il caglio come nel Medioevo, il pane cotto nel forno a legna, i bibanesi all’olio d’oliva modellati a mano, gli zaletti, i Prosecchi delle cantine Col Vetoraz, Sancòl, Bisiol, La Tordera, Ca’ Salina, Bortolomiol. Prezzi più che modici: un intero salame a 6 euro, le uova sode a 50 centesimi.
Oggi ho avuto fortuna: a guidarmi c’è lui, l’oste che non c’è. «Qualche volta faccio portare le patate lesse, ovi duri e un filo d’olio: la gente va via di testa, non è che ci voglia chissaché per mangiar bene». Si chiama Cesare De Stefani, ha 47 anni, una bella moglie, due figli. Abita nella frazione di Guia. È un imprenditore dedito all’arte di famiglia, titolare col fratello Giacomo di un rinomato salumificio che porta il loro cognome e che produce fra l’altro i Giacomini, filetti di maiale affumicato finiti nello zaino di Ranieri Gorza, alpinista bellunese di Lamon, durante la scalata all’Ururu Peak (5.895 metri), la vetta del Kilimanjaro, la più alta montagna d’Africa. Il padre Giuseppe e la madre Bernardetta, macellai, misero Cesare a bottega alla fine della terza media perché mostrava poca voglia di studiare, «bocciato due volte, lo Stato avrebbe dovuto farmi pagare la tassa d’occupazione del suolo pubblico, considerato che i banchi di scuola sono di tutti», non si assolve. Ma l’ingegno era brillante: oggi possiede anche la cantina Sancòl, che imbottiglia Prosecco e Cartizze.

F.R.

 

                          

 

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